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Cervello ed emozioni

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nessunoPlank lunedì 29 giugno 2009 15:221/7
La Neurofisiologia dimostra che non tutte le emozioni (che possiamo descrivere) sono coscienti.
Una scarica emotiva a partenza dall' amigdala può giungere
alla neo corteccia non completamente.
Pertanto vi sono emozioni in noi delle quali non siamo coscienti, con conseguenti comportamenti etc.

nessunostellina stellina stellina stellina stellina stellina DottCacchiuc mercoledì 28 ottobre 2009 13:292/7
vero verissimo...come è vero che certe emozioni si auto aggregano tra loro formando altre emozioni autonomee indipendenti di cui il cervello non ne aveva coscienza prima...è il cosiddetto "fantasma dentro la macchina" di Arthur Koestler...
...fatti non fummo per viver come bruti!
nessunostellina stellina fabioMD1960 mercoledì 28 ottobre 2009 16:203/7
Il 29/06 15:22 Plank ha scritto:
La Neurofisiologia dimostra che non tutte le emozioni (che possiamo descrivere) sono coscienti. Una scarica emotiva a partenza dall' amigdala può giungere alla neo corteccia non completamente. Pertanto vi sono emozioni in noi delle quali non siamo coscienti, con conseguenti comportamenti etc.
Concordo e aggiungo: il fatto che vi siano moti inconsci e' uno dei cardini del modello analitico dei meccanismi mentali teorizzato da Sigmund Freud agli inizi del 1900.
nessunoPlank sabato 31 ottobre 2009 15:404/7
Lo psichiatra riconosce che verbalizzando a lungo, ripetutamente le emozioni del paziente o qualsiasi cosa
il paziente ricorda, si riattivano delle correlazioni cerebrali
tra l' origine dell' emozioni inconsce (amigdala?) e la corteccia
prefrontale, normalizzando una corretta correlazione.
nessunostellina stellina fabioMD1960 sabato 31 ottobre 2009 15:515/7
Il 31/10 15:40 Plank ha scritto:
Lo psichiatra riconosce che verbalizzando a lungo, ripetutamente le emozioni del paziente o qualsiasi cosa il paziente ricorda, si riattivano delle correlazioni cerebrali tra l' origine dell' emozioni inconsce (amigdala?) e la corteccia prefrontale, normalizzando una corretta correlazione.
che sarebbe poi, sempre per stare sul modello psicoanalitico freudiano canonico, il processo definito 'abreazione'.
L' abreazione e' il meccanismo che determina l'effetto terapeutico sul paziente.
nessunostellina stellina stellina stellina stellina stellina danut sabato 31 ottobre 2009 16:236/7
Il 31/10 15:51 fabioMD1960 ha scritto:
che sarebbe poi, sempre per stare sul modello psicoanalitico freudiano canonico, il processo definito 'abreazione'. L' abreazione e' il meccanismo che determina l'effetto terapeutico sul paziente.
Che non sempre funziona. In effetti se il soggetto ha una capacità intellettuale superiore rispetto al terapeuta ed ha conoscenze in ambito diventa praticamente incurabile.
nessunostellina stellina fabioMD1960 lunedì 2 novembre 2009 15:557/7
Il 31/10 16:23 danut ha scritto:
Che non sempre funziona. In effetti se il soggetto ha una capacità intellettuale superiore rispetto al terapeuta ed ha conoscenze in ambito diventa praticamente incurabile.
Questa e' un'osservazione interessante che apre un discorso sulle reali possibilita' terapeutiche dell'analisi.

Dal mio punto di vista rilevo che quallo che danut fa notare e' sicuramente rilevante ma a mio avviso un po' generico e, se non meglio precisato, un po' troppo riduttivo sulla terapia.

Per chi conosce un po' l'analisi, ricordo che nell'ambito del rapporto tra terapeuta e analizzando, si innescano dei meccanismi definiti di resistenza alla cura.
Questo e' normale e accade sempre, al di la' dell'atteggiamento di piu' o meno aperta collaborazione del paziente.

Per tornare alla giusta osservazione di danut, concordo sul fatto che, se il paziente ha acquisito per proprio conto delle conoscenze in materia, questo elemento di conoscenza puo' diventare una fonte di resistenza al progredire della terapia.
Aggiugo pero' che questa conoscenza personale puo' essere anche un'agevolazione per la medesima.

Vi sono infatti (e fortunatamente) degli altri meccanismi che si attivano durante l'iter terapeutico, meccanismi tali per cui l'annalizzando supera le enpasse generate dalla resistenza.
Questo discorso e' ovviamente molto generale, e deve tiene conto di vari fattori, primo tra tutti l'abilita' reale del terapeuta nell'intervenire in modo opportuno e calibrato di fronte alla preparazione (piu' o meno elevata) dell'analizzando in materia analitica

Aggiungo, per amore di discussione, che vi sono inoltre scuole di analisi, mi riferisco per conoscenza diretta di studio alla Lacaniana, dove in realta' il terapeuta assume un ruolo di figura particolare, non solamente riconducibile alla reale presenza percepita dal paziente.
Qui le cose assumono un aspetto ancora diverso.

Concludo ribadendo poi il concetto foudamentale che in realta', se l'analisi e' condotta bene, il paziente arriva a capire che nessuno lo puo' curare: e' egli stesso che si cura perche' nessuno lo puo' conoscere e capire meglio di come 'lui' si conosce.
Infatti il processo di analisi ben condotta diventa poi un'autoanalisi personale, che consente a chi la pratica di progredire in autonomia verso un miglioramento del proprio stato psichico.
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